Schettino, la verità l'ha detta il tribunale
Un libro dal titolo “Chiedo perdono” forse lo avremmo letto e, probabilmente, lo avremmo anche apprezzato, e invece ci vengono propinate verità evidentemente farlocche, stante la sentenza emessa dal tribunale di Grosseto di Michela Diani
Caro Schettino,
credo di essere tra le pedagogiste più rilassate al mondo eppure la tua sfacciataggine mi ha fatto montare il sangue alla testa. Dopo aver fatto il cretino su una nave di un centinaio di migliaia di tonnellate come se fosse una Cinquecento, dopo esserti sottratto alle responsabilità morali che avevi nei confronti di quattromila passeggeri che si erano affidati alla tua “sapienza professionale”, dopo aver fatto morire trentadue persone mentre te ne stavi al sicuro a terra, hai deciso di affidarti alle muse della letteratura per diventare, oltre che famigerato, anche famoso con il libro “Le verità sommerse”.
Non ho letto il libro, né lo leggerò in futuro, ma quanto è venuto fuori dalla tua personalità di ultraquarantenne furbo ma immaturo, mi è bastato per realizzare che il tuo ego è vasto almeno quando quel mare su cui non sei stato in grado di navigare come, credo, tu non sia in grado di navigare su quel più vasto Oceano che è la vita di un uomo mediamente assennato e, soprattutto, responsabile delle proprie azioni.
Non sono riuscita a capire, in verità, chi potesse essere stato il tuo modello professionale di riferimento, di certo non il capitano Stubing della serie televisiva “Love boat” perché, per quanto sia un personaggio fittizio e un po’ comico, possiede delle qualità caratteriali, umane e marinare che tu puoi soltanto sognare.
L’assurda notorietà in cui stai sguazzando, in verità, non è tutta colpa tua, ma di un sistema sociale, politico e morale così degradato ormai che consente a persone come te di assurgere agli onori della mondanità e trarre anche dei vantaggi dalle proprie delittuose malefatte. Sul messaggio che ne scaturisce per la gente dabbene si è preoccupato il direttore di questo mensile che mi ha chiesto di scrivere un contributo su di te stigmatizzando gli aspetti antipedagogici ma, nonostante la raccomandazione del direttore di essere professionale, non ho saputo resistere alla tentazione di dirtene quattro in un linguaggio, lo ammetto, affatto professionale. Certamente ti domanderai perché l’ho con te e che cosa mai ci possa essere di criminale nel fatto di scrivere un libro sulle proprie esperienze. Esperienze? Ma ti rendi conto che dopo aver ucciso delle persone, con il tuo libro uccidi anche la loro memoria, l’aspettativa di giustizia dei loro congiunti, il senso del dovere nei comandanti di marina veri e, forse, uccidi anche la cultura? Un libro dal titolo “Chiedo perdono” lo avrei letto e, probabilmente, lo avrei anche apprezzato, e invece vuoi darci la “tua verità” che è evidentemente farlocca stante che il tribunale di Grosseto ti ha condannato a sedici anni di carcere. Di mio, in fondo, vi ho aggiunto soltanto un cazziatone comandante dei miei stivali, un cazziatone di cui senz’altro ti farai beffa giacché gente come te è un esperimento pedagogico fallimentare.
Sai, la gente comune su arrabbia tanto di fronte a queste cose e, invece, farebbe meglio ignorare i soggetti che, come te, costruiscono sulla morte il loro successo ma siccome ed io sono per la vita, da oggi ti ignorerò come hanno ben fatto due librerie, una di Busto Arsizio ed una di Varese, che si sono rifiutate di vendere il tuo libro. Hanno fatto bene: cercati complici altrove! A non più risentirci.